A TU PER TU CON BRUNO REVERBERI :” CARI GIOVANI DIESSE, IN AMMIRAGLIA METTETECI IL CUORE”

Nel 2018 Bruno Reverberi soffierà su 37 candeline da direttore sportivo di una squadra di professionisti. Ultimo padre padrone, come si intendeva un tempo, di un team. Una sorta di azienda di famiglia. Che dura da quasi 40 anni. Bruno Reverberi da direttore sportivo ha scalato tutte le categorie del ciclismo, dagli allievi agli juniores, dilettanti e infine professionisti. Una carriera iniziata in ammiraglia nel 1963 e approdata nel 1982 ai professionisti, come si intendevano un tempo. 37 anni di onorata carriera al seguito di gare, a scoprire corridori, talenti, percorsi, a far da meccanico massaggiatore o “mental coach” dei suoi stessi atleti…”Due urlate o una pacca sulla spalla, quello era fare il mental coach, il corridore capiva l’antifona e pedalare“. Sotto di lui sono passate schiere di atleti, talenti cristallini e anche tanti brocchi, gente che sulla bicicletta era un’opera d’arte o chi con le due ruote non c’entrava nulla. Ma il tutto sempre gestito con professionalità.

Il diesse cos’era?

“Era tutto” – racconta Bruno, mai domo, mai stanco, con la grinta di sempre – “Eravamo direttori sportivi, team manager, prenotavamo alberghi, facevamo da meccanici a volte, da massaggiatori, eravamo il punto di riferimento dello sponsor che di fatto era il proprietario del team, andavamo a trattare con i corridori e si scoprivano talenti. E al mattino si preparavano le tattiche di gara. Il diesse era una figura centrale. Con gli anni però c’è stata una evoluzione, un affiancamento con altre figure, quella del preparatore atletico che controlla le performance. Nel ciclismo moderno ci sono esigenze infinite rispetto a 37 anni fa”.

Ovvero, quali sono le esigenze ?

“Negli anni Settanta, Ottanta e inizi Novanta i team professionisti avevano dodici, al massimo tredici corridori. Non esistevano i pullman, avevamo un camion e due ammiraglie. Due meccanici, due massaggiatori e un medico. Il diesse faceva tutto, magari si faceva aiutare dal “garzone di bottega” dal giovane diesse in affiancamento. Ma anche l’attività era ridotta. Si correva tutto il calendario italiano, poi si andava, in Spagna, Belgio, Olanda, Francia. Un calendario europeo, perché il ciclismo era questo. Lingua straniera? La lingua ufficiale del ciclismo era il francece ma noi italiani ci arrangiavamo sempre. Ora è tutto più complicato. Ci sono i grandi gruppi, corridori che arrivano da tante parti del mondo, bisogna conoscere l’inglese anche per le tante pratiche e la tanta burocrazia che ci impone l’Uci. Diciamo che il ciclismo di 37 anni fa era tutto più familiare, alla portata di tutti, c’era cuore, passione e allegria, divertimento. Ora tutto professionale. Tanta burocrazia, tanta attenzione su tutto. E i team hanno un numero importante di corridori e i diesse li dividono in gruppi. Ogni diesse deve seguire un gruppetto ristretto di corridori, che sono intercambiabili.”

Un tempo i team erano appunto ristretti.

“Solo squadre come la Salvarani o la Sicc, con Gimondi e Adorni erano numerose. Noi che avevamo dodici, al massimo tredici corridori, sul camion mettevamo solo i telai. Solo il capitano e un atleta promettente, avevano la bici di scorta. Gli altri la stessa bici che usavano a casa.”

Le cronometro?

“Le faceva il capitano che era in classifica, e solo lui aveva la bici da crono, gli altri, bici da strada, calza maglia e via. Tanti gli atleti passati sotto di me, da Cassani che ho fatto passare professionista ad una lunga lista infinita di atleti.”

Cosa manca al ciclismo moderno?

“Un po’ di cuore, di passione e qualche responsabilità in più che un tempo aveva il diesse, che aveva l’occhio lungo a sistemare ogni cosa e a percepire i problemi del team, perché tante squadre erano sentite come casa propria.”

  • ADISPRO

    Adispro è l’associazione italiana che raggruppa i direttori sportivi del ciclismo nazionale con lo scopo di tutelare gli interessi professionali incoraggiando iniziative utili alla categoria.